Monastero delle Clarisse "S. Antonio e B. Elena"

Presso il Santuario "S. Antonio al Noce" - Santuari Antoniani Camposampiero (PD) - Italia

S. ANTONIO E IL SILENZIO GREMBO DELLA PAROLA

 

“La parola è nata dal silenzio: dalla pienezza del silenzio. E questa pienezza sarebbe esplosa se non avesse potuto confluire nella parola perché la parola che nasce dal silenzio è come investita di una missione: è legittimata dal silenzio che l’ha preceduta”. Max Picard

 

L’approfondimento che ci è stato chiesto di svolgere, la dimensione del “silenzio” nell’esperienza spirituale di S. Antonio, ci permette di entrare nella relazione personale tra Antonio e il Signore. Cercheremo di sviluppare il nostro contributo prendendo in considerazione soprattutto tre momenti che ci sembrano indicativi di altrettanti fecondi sviluppi del suo abitare il silenzio: durante la permanenza tra i Canonici Regolari prima di Lisbona e poi di Coimbra, nel passaggio ai Minori e nell’ultimo periodo della vita dedicato totalmente al ministero della predicazione nell’area del nord Italia e sud della Francia.

 

Primo momento: Antonio tra i Canonici Regolari di S. Agostino. Il silenzio come ascolto.

Prenderemo avvio per la nostra indagine, per quanto le fonti ce lo consentono, dal periodo in cui Fernando Martins de Bulhões - Antonio sarà il nome che prenderà da frate minore - sceglie di entrare tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino nella canonica di Sao Vincente de Fora in Lisbona sua città natale nel 1210 a soli quindici anni di età.    

I canonici nonostante dessero grande importanza allo studio, al raccoglimento, alla preghiera, all’Ufficio divino e all’osservanza dei consigli evangelici, si differenziavano dai monaci per il loro apostolato assistenziale, aperto alla vita sociale. Sappiamo che già nel 1173 quando vennero accolte le reliquie del martire san Vincenzo, la chiesa a lui dedicata divenne un luogo di pellegrinaggio, per cui furono edificati un ospedale e una casa di accoglienza per i pellegrini di cui successivamente se ne fecero carico i canonici.

 Tra i canonici di Lisbona Fernando soggiornò solo un paio di anni perché assillato dai parenti e dagli amici che gli facevano visita troppo spesso, cosa allora frequente tra le classi abbienti, impedendogli di vivere quel clima di silenzio necessario alla preghiera e alla comunione con Dio tanto desiderata. Chiese allora e ottenne con fatica di trasferirsi nel monastero (canonica) di Santa Cruz in Coimbra a circa 200 chilometri di distanza “per amore di una più severa disciplina e di una tranquillità più feconda” (Assidua). La nuova comunità composta da settanta canonici, era sede di un importante centro di studi; in essa vi rimase circa otto anni. Anni importantissimi per la sua formazione umana e intellettuale in vista dell’ordinazione sacerdotale, formazione che poteva fare affidamento su valenti maestri formatisi a Parigi e su una ricca e aggiornata biblioteca. A Coimbra Fernando si nutrì di Sacra Scrittura e di patristica formandosi anche nello studio delle scienze naturali. Grazie al suo notevole ingegno, all’applicazione allo studio altrettanto notevole e all’ambiente molto qualificato, divenne un maestro capace di padroneggiare perfettamente il sapere acquisito. La data della sua ordinazione sacerdotale è probabilmente da collocarsi nella primavera del 1220.

 Dalle fonti biografiche apprendiamo che “Antonio si trasferì al monastero della Croce vivifica (Santa Cruz di Coimbra) per amore di una più severa disciplina e di una tranquillità più feconda; il crescente fervore di lui mostrava che aveva mutato non tanto il luogo, quanto d’impegno. Così Antonio ebbe un tale comportamento, da render evidente a chiunque, che aveva cercato un luogo più propizio per raggiungere la perfezione più alta. Coltivava l’ingegno con una forte applicazione allo studio, e teneva in forma lo spirito con la meditazione. Notte e giorno, secondo l’opportunità, mai interrompeva la divina lettura. Nel leggere i testi biblici, badando alla verità storica, fortificava la fede con raffronti allegorici; e applicando a sé stesso le parole scritturali, incrementava col vivere virtuoso gli affetti … approfondiva la sapienza dei santi con diligente indagine” (Assisua 2,3-5).

Possiamo dedurre che Fernando in questi anni di formazione intellettuale e spirituale vive il tanto desiderato silenzio come luogo previlegiato in cui iniziare a radicare ogni gesto, parola, passo nell’orizzonte di Dio. Lo pratica per raggiungere una autentica conoscenza di sé e una reinterpretazione della propria identità crescendo nell’ umiltà di chi non presume di ciò che sa, né di ciò che possiede, né di ciò che dice, ma che attende la parola di un Altro, parola apportatrice di vita. Alterna la lettura e lo studio della Sacra Scrittura a prolungati momenti di silenzio, perché è la Parola stessa che esige silenzio per essere accolta e assimilata come Parola che consente di riconoscersi dipendenti da essa, generando nel cuore l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio, fino a desiderare di fare della propria esistenza una sua realizzazione concreta.

 

Secondo momento: Antonio tra i Frati Minori. Il silenzio come consegna di sé.

 

Da poco insediatesi su di un colle presso Coimbra, i minori frequentavano molto probabilmente i canonici, per ricevere assistenza e sostentamento. Sarà stata in una di queste occasioni che Antonio li ha conosciuti. Nel 1220 cinque frati minori furono uccisi dai saraceni in Marocco, i primi martiri francescani. I loro resti mortali furono raccolti dai cristiani del luogo e trasportati dall’infante Pedro, grande amico dei minori, fratello del re Alfonso II, nella chiesa di Santa Cruz in Coimbra. Alla vista di quei corpi martoriati il nostro giovane canonico fece un’esperienza sconvolgente che penetrò nel profondo del suo animo. Così si esprime il suo primo biografo (Assidua): “Oh, se l’Altissimo volesse far partecipare anche me della corona dei suoi santi martiri! Se la scimitarra del carnefice colpisse anche me, mentre in ginocchio offro il collo per il nome di Gesù! Avrò la grazia di veder questo? Potrò godere un giorno così felice?” (Assidua 5,2). Le fonti sottolineano concordi che fu il grande desiderio di martirio a spingere Fernando ad abbracciare la Regola francescana e ad affrontare le difficoltà che subentrarono per ottenere il permesso di lasciare i canonici, sollevate anche dai suoi familiari. Temendo ulteriori impedimenti, presumibilmente nell’estate del 1220, decide di tagliare corto con il passato: entra tra i minori e cambia il nome in Antonio, il santo eremita del deserto a cui era dedicato il romitaggio dei minori di Monte dos Olivais in Coimbra. Verso la fine di quello stesso anno, dopo aver ricevuto i primi rudimenti di spiritualità francescana, Antonio si adoperò per partire subito e andare a predicare ai saraceni proseguendo la missione iniziata dai frati minori poi martirizzati. Per il nostro giovane lusitano però, sembra quasi che la missione non sia più il contesto, ma che divenga un pretesto per ricevere la palma del martirio come massima conformazione a Cristo, guadagnando il vertice della sequela del Signore Gesù. Appena giunto in Marocco venne colpito da una grave e lunga malattia che lo costringerà all’inermità e a far ritorno in Portogallo appena passato l’inverno. Sono lunghi mesi di sofferenza sia fisica che spirituale, questa volta il silenzio sembra provenire da Dio stesso: Antonio sperimenta il fallimento. Ci paiono interessanti le considerazioni a cui giunge Roberto Leonardi in un recente contributo sulla figura di Antonio: “Il Santo è un uomo ancorato a una silenziosa e profonda esperienza mistica, con la coscienza di chi sa che «Dio si sperimenta nel silenzio, nel più profondo di sé stessi»; e con molte probabilità questa consapevolezza si affermò in lui con maggior forza dopo aver «fallito» il tentativo ricevere il martirio nella terra dei saraceni”.

Provando a scavare un po' di più nella comprensione di questa esperienza, in punta di piedi, ci sembra che l’inaspettato esito della tanto desiderata missione e il forzato silenzio/inattività conducano Antonio ad  attendere che il senso dell’accaduto si dischiuda lentamente, progressivamente, e che questo per lui nuovo atteggiamento nei confronti della vita, produca una maturazione spirituale  nella comprensione  della realtà, della santità stessa (anche del martirio): non può essere posseduta, può solo essere accolta quando e come il Signore vorrà e che  il cammino per giungervi, la sequela, necessita di lunga pazienza, di fedeltà e dura tutta una vita; per gustare il Dio che si autoconsegna nella fede, deve ritrovare a sua volta un approccio al reale più spossessato e credente. «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. È bene per l’uomo portare un giogo nella sua giovinezza. Sieda costui solitario e resti in silenzio, poiché egli glielo impone» (Lam 3,26-28). A questa che possiamo chiamare una seconda conversione, andranno ricondotte tutte le sue scelte successive.

Antonio ora, si lascia fare con docilità: partito in primavera dal nord Africa per raggiungere il Portogallo, farà naufragio sulle coste della Sicilia vicino a Milazzo a causa di venti contrari; poco dopo, ancora malfermo di salute, con un confratello risalirà l’Italia per giungere ad Assisi e partecipare al “capitolo delle stuoie” del 1221 al quale sarà presente lo stesso san Francesco. Straniero e sconosciuto da tutti verrà accolto, al termine del raduno, da fra Graziano, responsabile dei frati minori della Romagna e mandato nell’eremo di Montepaolo vicino a Forlì. I francescani della prima ora vivevano spesso nei romitori, piccole abitazioni in cui si applicava la regola per gli eremi voluta da San Francesco. Regola che prevedeva spazi di silenzio e solitudine e momenti di fraternità. Qui a Montepaolo alla sera i frati, sette in tutto, si ritrovavano per i vespri e la cena. Al mattino compiute le preghiere comunitarie Antonio si affrettava alla volta della sua grotta per vivere solo con Dio, come scrive primo biografo: “Ora invocava l’eterno Giudice implorando misericordia, ora si intratteneva con lui con la tenerezza del figlio, ora conversava con Cristo come con l’amico prediletto, invocandolo per tutti i suoi fratelli sparsi nel mondo e intercedendo per i fuorviati”. Nella grotta che ha chiesto in prestito ad un fratello Antonio sprofonda, si immerge nella preghiera ci dicono le fonti, coltivando intensamente silenzio, solitudine e penitenza.                                                                      

Probabilmente nel periodo trascorso a Montepaolo tra il giugno del 1221 e il settembre del 1222 il nostro santo vive quella che doveva sembrargli la sua nuova vocazione. Qui la Parola accolta nel silenzio fecondo di tutto il suo essere, ne plasma l’interiorità perché è un ascolto attento o meglio un obauditio - così Antonio chiama l’ascolto - che attiva nella persona il compimento stesso della Parola che salva e la rende idonea a parlare, le dà un mandato profetico. Quelle che alla fine dirà saranno parole di Dio, testimonianza e annuncio della sua carità.

 

Terzo momento: Antonio e il silenzio come grembo in cui si genera la restituzione della Parola.

 

Ancora una volta, il nostro santo, ha la disponibilità a lasciarsi adoperare dalle circostanze e a lasciarsi adoperare da Dio. Lui uditore della Parola al punto da conoscerla a memoria è ora chiamato a restituirla. L’occasione gli è data quando, forse per un errore di organizzazione, alle ordinazioni sacerdotali dei minori che si celebravano nel duomo di Forlì, non c’è chi tenga il sermone di esortazione ai giovani ordinandi e fra Graziano chiede a lui di predicare. Nessuno si aspettava che il giovane fratello fosse così intellettualmente preparato e soprattutto capace di far vibrare in profondità il cuore degli ascoltatori con la forza appassionata della sua predicazione.

Tutte le fonti sottolineano con enfasi questo momento: sarà la svolta decisiva. Antonio non ritornerà più a Montepaolo ma per mandato del ministro provinciale prima e del capitolo generale più tardi, inizierà a predicare e lo farà per i rimanenti otto anni della sua vita, percorrendo instancabilmente il nord Italia e il sud della Francia funestate dalle eresie catara e albigese. Insegnerà, anche, sacra teologia ai frati, con il beneplacito dello stesso S. Francesco, infondendo in loro il suo sapere e la sua sapienza. Per la Scrittura la sapienza è fatta di disciplina di parola e silenzio possibile solo a colui che tace con calma. Infatti Antonio al silenzio ritorna o meglio sceglie di rimanervi, come parte integrante della propria vita, non tanto come una felice parentesi per rinfrancarsi, ma come luogo nel quale profondarsi, appena può, per conformare la propria vita a quella di Cristo. Dalle fonti apprendiamo che spesso utilizzava delle grotte per la sua preghiera, e che quando lasciava il silenzio testimoniava e annunciava la parola con le parole della carità. La sua predicazione attrarrà folle di persone che si sentono raggiunte in profondità da quella parola potente che da consolazione e invita alla conversione. Antonio, inoltre, sembra saper guadagnare proprio nel silenzio il valore aggiunto per entrare in comunione con la vicenda di ogni persona che incontra prediligendo gli ultimi come lo erano allora le vedove e i fanciulli. Diverrà il Santo per antonomasia, il santo della gente, capace con la sua autorevolezza di far modificare gli statuti della città in favore di un più mite trattamento dei prigionieri per insolvenza.

Avviandoci alla conclusione, dopo il quaresimale tenuto a Padova nella primavera del 1231 in cui ha predicato instancabilmente per quaranta giorni, si ritira estenuato a Camposampiero nel piccolo convento/romitorio dei frati; si farà approntare una celletta tra le fronde di un grande noce lì nella campagna (in mancanza di grotte!)  per poter pregare indisturbato rinnovando quasi la tradizione degli antichi dendriti. Sarà l’ultimo “silenzio”. Il 13 giugno colto da un malore, verrà trasportato a Padova dove, appena fuori delle mura, all’Arcella, esalando l’ultimo respiro vedrà il suo Signore.

Dal silenzio come ascolto della parola, passando attraverso il crogiuolo di un silenzio imposto dalle circostanze che gli permette di consegnarsi totalmente al Signore per giungere infine ad un silenzio generatore della parola che da Vita. Ancora, dalla pienezza silente della comunione trinitaria finalmente raggiunta, Antonio continua a parlarci:

 

“Quanto grande è stato l’amore di Dio Padre per noi!

Egli mandò proprio per noi il suo Figlio unigenito,

perché lo amassimo vivendo per lui, senza il quale vivere è morire”                                              (Sermone per la prima domenica dopo Pentecoste)

 

Articolo a cura delle Sorelle Clarisse del Monastero "S. Antonio al Noce e B. Elena" di Camposampiero. 

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